Il cavallo di Torino

Quanti hanno cercato di descrivere l’apocalisse in un lungometraggio? Decine di film, sempre più elaborati e sempre più spettacolari hanno sbancato i botteghini alla ricerca dell’effetto speciale più incredibile. Ma l’unico a essere riuscito davvero a cogliere l’essenza della distruzione è Bela Tarr, nella sua pellicola più decadente, forse l’ultima della sua carriera. Dio creò la terra in sette giorni; Tarr in sei, distrugge l’intero creato, anzi, in due ore e mezza: la durata del lungometraggio.

La premessa è semplice quanto geniale: che fine ha fatto il cavallo che Nietzsche abbracciò prima di impazzire? Quel cavallo che, frustato da mattina a sera, per la prima volta, aveva ricevuto un segno d’affetto da un perfetto sconosciuto. Ma non uno sconosciuto qualsiasi: forse il più grande filosofo di tutti i tempi.

“Gli uomini più profondi hanno sempre provato compassione per gli animali […] Noi pensiamo che gli animali siano esseri senza morale, ma pensate che gli animali ci considerano esseri morali? Un animale che sapeva parlare disse: l’umanità è un pregiudizio del quale noi animali, almeno, non soffriamo.
Friedrich Nietzsche

Il regista ungherese non delude, presentandoci un bianco e nero mondato e ricco, caratterizzato dai soliti lunghissimi piani sequenza che seguono la vita dei protagonisti: brutti, inutili, senza carattere, senza carisma, senza passioni, senza vita. Si trascinano nella loro ripetitiva esistenza senza possibilità di fuggire dalla loro condizione di povertà estrema: non ne hanno i mezzi, non ne hanno la forza, non ne hanno la voglia, così come il cavallo che a un tratto smette di nutrirsi senza motivo apparente. Perché “Dio è morto”, questo è il monito di Nietzsche che ci arriva per bocca del tetro visitatore in cerca di palinka. La vita, o meglio, il nulla, scorre lento, rendendoci sempre più stanchi, più distaccati, più annoiati. I giorni passano e anche la cinepresa, così come il nostro sguardo, che in principio seguiva ogni gesto dei personaggi, smette di seguirne i movimenti restando sempre più indifferente. “Vita”, questo è il soggetto del film. “Morte”, questo è il destino ultimo di ogni cosa.

La speranza che qualcosa stia finalmente per accadere, che qualcosa possa dissipare l’apatia incessante, che esista una via d’uscita dal torpore vegetale che ci pressa a fondo nelle viscere, lascia lentamente spazio ad angoscia estrema e rassegnazione: non si può provare altro durante la visione di questa pellicola, la cui grandezza diverrà nitida alla fine di tutto, il sesto giorno, quando l’oscurità avrà definitivamente avvolto ogni cosa.

Un capolavoro d’avanguardia, di cinema che va oltre il cinema, oltre le immagini, oltre la sceneggiatura. Un tipo di cinema che si spoglia di ogni consistenza materiale, sforando pericolosamente nell’etereo, nel subliminale, nell’invocazione metafisica per eccellenza, che si domanda incessantemente: “perché l’essere piuttosto che il nulla?”.