Last Days

Last Days è un film del 2005 scritto e diretto da Gus Van Sant. Insieme a Gerry ed Elephant costituisce il capitolo conclusivo della trilogia della morte. La pellicola è ispirata agli ultimi giorni del leader dei Nirvana: Kurt Cobain, anche se non viene mai nominato. Last Days è un film difficile da seguire, un film diverso dagli altri, in un certo senso sperimentale.
Si, perché Last Days non è un film dalla trama ordinaria, anzi, si può dire che non ha per nulla una trama. Last Days non è caratterizzato da colpi di scena improvvisi nè azione o sparatorie, anzi, il film è un’accozzaglia di lunghissimi piani-sequenza che seguono il protagonista nel suo vagabondaggio. Last Days non ha nemmeno una continuità temporale, infatti le sequenze sono così stranamente suddivise da farci quasi sembrare che siano messe lì per caso. Last Days non è nemmeno un documentario sulla vita di Kurt Cobain, anzi nè lui nè nessun altro membro della band viene menzionato nel film.

Last Days è un ennesimo esperimento partorito dalla mente di Van Sant, che ci mette di fronte un prodotto difficile da comprendere. Un film, lento, monotono, silenzioso, con un grande Michael Pitt (nel film Blake), che imita alla perfezione i movimenti e il temperamento di Kurt. Insomma, Last Days non è un film per tutti, quindi chi cerca un film divertente o piacevole per passare la serata, passi tranquillamente oltre, non potrà assimilare molto da questa pellicola.

Gli amanti delle sensazioni forti, i cinefili e gli amanti del cinema invece, continuino a leggere questa recensione, perchè dopo aver detto ciò che Last Days non è, adesso vi dirò cos’è Last Days.

Chi conosce il regista statunitense sa bene quali strambi modi ha egli per raccontare una storia; fuori dai canoni classici dei film che vediamo di solito. Van Sant si basa poco sul dialogo e molto più sulle sensazioni. La storia che viene raccontata è una storia di tristezza, depressione, solitudine. Un giovane emulo di Cobain che ormai ha perso ogni stimolo per vivere, intrappolato dall’inutilità della vita e dalla solita routine quotidiana. Niente ha più un senso per lui e l’unico modo che ha per passare il tempo è vagabondare nei boschi, nella natura, per provare, almeno soltanto provare a sentirsi vivo. A cercare qualcosa senza sapere cosa.

Le sequenze sono ripetitive, lunghissime, estenuanti. Lo spettatore si sente stanco, affranto dalla monotonia delle scene e proprio in questo modo il regista trasmette al pubblico esattamente le sensazioni che prova il protagonista. Un uomo stanco, scocciato dalla piattezza delle cose, che non sente alcuno stimolo e vuole scappare, vuole fuggire via. Via dagli impegni, via dai discorsi inutili delle persone che lo circondano, via dai moralisti, via da chi cerca lo scopo della vita in false credenze o religioni, via da chi impara a memoria un discorsetto per convincerti a rinnovare l’inserzione delle pagine gialle, via da chi crede che tenendo la mascella di un animale in tasca avrà fortuna e amore nella vita… via da tutte queste persone inutili!! E così, minuto dopo minuto anche lo spettatore non vede l’ora di scappare via dalla sala. Via da quel dolore.

Il montaggio è completamente sballato, non c’è una trama, nulla ha un senso logico, la colonna sonora è opprimente, come la vita del protagonista, che non riesce ad essere felice, vive per inerzia. Cerca in tutti i modi di rompere la propria monotonia travestendosi da donna e girando come un pazzo scatenato per le stanze dei coinquilini con un fucile in mano, urlando la sua rabbia suonando e cantando “Death to birth”, ma sono solo attimi prima di sprofondare nell’oblio. Perché le persone da cui fugge sono i suoi assassini e quella casa dove vive, quel viale dove cammina, quel bosco dove vagabondeggia senza alcuno scopo, sono la sua tomba. Cosa può esserci dopo la morte di peggiore? Vale la pena scoprirlo, piuttosto che continuare a spegnersi lentamente…