The Hateful Eight è una provocazione impressa su pellicola; e dico “pellicola” nel verso senso della parola, visto che il film è stato girato nel “glorioso” formato Ultra Panavision 70mm, lo stesso formato abbandonato che aveva visto raccontare le vicende del fortunato colossal “Ben Hur” con Charlton Heston e del meno fortunato “Gli ammutinati del Bounty” con Marlon Brando, entrambi film ambientati in ampi spazi aperti.
Quentin Tarantino, come un bastardo prestigiatore, confonde lo spettatore con la spettacolarità delle sconfinate distese innevate del Wyoming, rese ancor più vivide dal formato 70mm e ansiogene dalle note del maestro Morricone, per poi prendersi gioco della sua stessa concettualità. Rinchiude definitivamente gli 8 protagonisti in una vecchia e logora baita di legno: la location forse meno adatta per il formato 70mm, imprimendo in questo modo un significato prettamente simbolico alla scelta. Tarantino va oltre e istiga lo spettatore: lo spinge a spostare gli occhi da sinistra a destra, da destra a sinistra, giocando con le proporzioni super-wide come un bambino che ha appena ricevuto un nuovo giocattolo.
I dialoghi sopra le righe restano un punto fermo per tutta la durata della pellicola e sono l’unico elemento che ci ricorda di essere nel regno di Tarantino, altrimenti, la prima parte potrebbe quasi essere scambiata per un remake de Il Grande Silenzio. Se non che, rispetto a Silenzio (che è muto), Warren (Samuel Jackson) è loquace più che mai, tanto da diventare a tratti logorroico. C’è lo spietato cacciatore di taglie John Ruth (un memorabile Kurt Russel, che rispetto al freddo Tigrero di Klaus Kinski, mostrerà un lato tenero.), l’apparentemente ingenuo sceriffo Mannix/Corbett (lo strepitoso Walton Goggins) e la criminale Daisy Domergue (un ancor più strepitosa Jennifer Jason Leigh), una sorta di MacGuffin umano, attorno alla quale si svolge la messa in scena tarantiniana.
Il cacciatore di taglie del sud, il generale confederato in pensione, il piccolo uomo inglese, lo sceriffo ingenuo, il messicano misterioso (e un Michael Madsen non pervenuto per fare numero). Ci sono tutti gli ingredienti per raccontare le contraddizioni dell’america post guerra civile; nello stile di Tarantino ovviamente. “Diciamo che questa parte della taverna rappresenta il sud e quest’altra il nord”, afferma Oswaldo Mobray (Tim Roth). Perché The Hateful Eight è un film sulle contrapposizioni: fra uomo e donna, buono e cattivo, nero e bianco, nord e sud, giusto e sbagliato.
Senza peli sulla lingua, senza seguire le consuetudini e le buone maniere: la donna viene brutalmente picchiata e privata di femminilità, lo spietato uomo bianco nasconde debolezze e fragilità, l’uomo nero si prende gioco dell’uomo bianco mettendogli le palle in bocca (letteralmente) e così via. Signori: ecco a voi il selvaggio West; o forse la selvaggia America perbenista. Un gioco di ruolo al massacro dove le carte vengono rimescolate fin quando una troppo prevedibile “svolta tarantiniana”, sempre in agguato dietro l’angolo, distrugge gli equilibri creati con tanta pazienza e promiscuità.
Quentin Tarantino è un artista di collage: di generi, di significati, di tecniche registiche. Se in Kill Bill questa tendenza si manifestava in tutta la sua magnificente potenza creativa, in questo film il risultato è complessivamente più debole e confuso. Forse il paragone più calzante è quello con Le Iene, ma western e per quanto possibile ancor più cruento. E stilisticamente, The Hateful Eight, è proprio un film a metà fra “La Cosa” di Carpenter (al quale Tarantino si era già ispirato, appunto, per scrivere Le Iene) e “Il Grande Silenzio” di Corbucci (per l’epoca, un western decisamente anticonformista).
L’impronta politica e la propensione ai lunghissimi dialoghi iperrealisti, impediscono al film di essere abbastanza thriller o abbastanza giallo da risultare originale a chi conosce bene il regista, ma abbastanza western (e questa sua capacità è assai nota) e “tarantiniano” da compiacere i suoi fan di vecchia data.
https://www.youtube.com/watch?v=gnRbXn4-Yis