Sono ancora qui, fermo ad ascoltare il mio respiro. I miei polmoni si gonfiano d’aria, poi si sgonfiano e rigonfiano e intanto i miei sensi si acuiscono, la mia mente si dilata alla caccia di pensieri nascosti. Il mio cuore batte e ne sento chiaramente i palpiti, per tanto tempo ignorati. Allora, con gli occhi dell’anima puntati verso l’infinito realizzo ciò che sono, ciò che sarei potuto essere, ciò che sarò domani. Perduto in un limbo senza memoria.
È passato il dolore. È svanita la tristezza. Con esse è dissolta anche quella sensazione di felicità estrema; quell’ingenuità propria degli adolescenti che si abbandonano alle mille sensazioni del cuore in cerca di qualcosa che non sanno ancora bene cos’è. Che meraviglia era viaggiare ogni notte, calmo, sereno, nell’attesa di un nuovo giorno felice. La visione di quell’intima e disinvolta beatitudine dei sensi, colmi di tutte le mille più belle emozioni che si possano provare in vita. Una visione sfocata, ma viva di sapori e profumi, di suoni e sensazioni flagranti di mattini appena sbocciati, di corse a vuoto per prendersi e poi rapirsi in un abbraccio che ferma il tempo, eterno come l’amore a cui era dedicato.
Lì, nell’afa d’un mattino d’estate, accoccolato fra le gambe intrecciate e l’alito del vento caldo che grondava dalle nostre bocche e dalla nostra pelle umida di passione, impregnata di profumi mai scordati abbastanza.
Resta ancora una goccia, sul mio viso, dolce-amara di vita trascorsa; e scorre via anch’essa, dietro l’angolo di un vicolo cieco che non rivedrò mai più.
Dove il dolore e la bellezza erano un’unica entità. Dove tutto era giusto, perché tutto era niente.